DANTE CAIFA (1920 – 2003)

Indimenticato maestro di cappella del duomo di Cremona, nacque nel 1920 a Vescovato (Cr) compiendo gli studi musicali ai Conservatori di Parma e Piacenza, diplomandosi in Direzione di coro e Composizione. Subentrato a Federico Caudana come organista e maestro di cappella del duomo, all’inizio degli anni ‘70 fondò il Coro Polifonico Cremonese; nel 1992 ricostituì la Cappella Musicale della Cattedrale. Musicista di grande talento, a lui si deve la riscoperta a Cremona della polifonia classica (Monteverdi e Ingegneri in particolare) e del grande repertorio corale dopo l’impostazione lirico-romantica di Caudana. Contribuì in modo decisivo alla fondazione di una Scuola di musica sacra (l’attuale Scuola Diocesana a lui intitolata). La sua ampia produzione di messe e mottetti (in parte disponibile in un recente CD promosso dalla Scuola Diocesana di Cremona) è stata pubblicata nel 2003 nella collana «Autori cremonesi di musica sacra» (vol. 1).

È bello dar lode al Signore!

di don Gino Assensi

La sera del 22 dicembre 2000, in cattedrale, don Dante non nascose la propria commozione; a commuoverlo non era, però, la presenza dei tanti convenuti a festeggiare il suo ottantesimo compleanno, ma la pagina evangelica del Magnificat che la liturgia propone nella Messa di quel giorno. Del resto in quale pagina evangelica può meglio riconoscersi l’esperienza di un cristiano non solo prete ma anche musicista?

Quella sera provavo il rincrescimento di non aver potuto concretizzare l’idea (nutrita da qualche anno) di dare alle stampe, proprio per quell’occasione, alcune composizioni sacre di don Dante.

Ora prendo atto, e con estremo piacere, di come quell’idea sia stata come un “granello di senape” che l’Associazione “Marc’Antonio Ingegneri” ha coraggiosamente seminato e dal quale è germogliato il “grande albero” di questa pubblicazione: invece che un’antologia ecco quasi un’opera omnia del prete musicista giunto al sessantesimo anniversario dell’Ordinazione Presbiterale.

Era prete da 23 anni soltanto quando sentii parlare di lui; si era nell’ottobre 1966, in seminario. Ai superiori di camerata noi, alunni di prima media, avevamo chiesto notizie sui vari professori; quello di educazione musicale sarebbe stato “don Caifa” (garantiti, però, che non era implicato nella morte di Gesù), avrebbe provato la voce a tutti e raccontato barzellette non solo in italiano ma pure in dialetto… Fin dai primi incontri a meravigliarmi fu la sua capacità di comunicare la passione per la musica in modo essenziale e convincente, facendo leva sulla curiosità e sull’interesse possibili a quell’età, con un metodo tutt’altro che accademico e pesante. Con l’ascolto di brani d’ogni tipo (dall’Inno alla gioia di Beethoven ai passi più noti di Viva la gente, dal Salmo XVIII di Benedetto Marcello al canto popolare E la risulìna e la risulàda, dal Messia di Haendel alla Turandot di Puccini…) la proposta era tutt’altro che monotona, circostanziata non più del necessario per capirla un poco, tendente ad interessare e divertire.

Oltre all’ora di educazione musicale era notevole l’attività della schola cantorum per le celebrazioni interne al seminario e, soprattutto, per quelle in cattedrale; come “maestro di cappella” don Dante esercitava la sua indubbia capacità di “concertatore”, introducendo con efficacia i cantori nello spirito di un brano, trasmettendo la sicurezza di chi possiede la partitura, insegnando la disinvoltura necessaria ad affrontare i passaggi più ardui, conducendo l’esecuzione con chiarezza di gesto e precisione negli attacchi… Insomma c’era tutto quello che avrebbe garantito alla schola del seminario (che in quei tempi contava dai settanta agli ottanta elementi) di far bella figura ancora per un pezzo, nel proprio servizio liturgico1, se non fossero insorte difficoltà di vario genere che – invece – resero il lavoro più complesso del necessario e avaro di risultati.

«Fu il difficile periodo che vide protagonista in Cattedrale don Dante Caifa»: così ha recentemente scritto Giovanna Gregori Maris2, individuando anche alcune cause che resero difficili quegli anni che vanno dalla fine del Concilio Vaticano II al tramonto della schola cantorum del seminario. L’elenco fatto dalla Maris è obiettivo pur nella sua sinteticità; ad integrazione penso sia doveroso (anche se doloroso) parlare dello scarso valore dato all’educazione musicale e, specificamente, al canto liturgico. Si faceva musica solo perché non si poteva farne a meno, perché dopo tutto si celebrava ogni giorno, perché c’erano di mezzo le “funzioni” in duomo; in molti la cosa era sopportata; solo in pochi c’era l’entusiasmo di servire il Signore anche attraverso il canto. L’entusiasmo di quei pochi, poi, era considerato una mania quando tendeva a valorizzare comunque il patrimonio musicale del passato pur in mezzo alle necessarie e nuove espressioni. Quante volte la riforma liturgica conciliare fu invocata per “eliminare” non solo il patrimonio del passato ma pure le liturgie in canto, la lingua latina…! Era senz’altro singolare (per non dire grottesco) che si avesse paura del latino quando lo si studiava almeno per sette anni, che non si considerasse più di tanto l’arte di celebrare proprio in un ambiente che preparava i futuri preti. Mugugni, contestazioni, diffidenza, scetticismo diffuso erano all’ordine del giorno. E non c’era verso di replicare – documenti alla mano – che la riforma liturgica conciliare non voleva affatto quello che in suo nome si rivendicava quasi come un diritto. L’ora settimanale di canto, nei corsi teologici, era disertata da alcuni e mal seguita dai più; ci si ridusse a studiare canti folk e, pur di andare incontro in qualche modo alla sensibilità dei più, don Dante propose addirittura di adottare il Cantascuot quale libro di testo! Da alcuni fu dissuaso e la cosa, fortunatamente, non ebbe seguito ma dice il livello al quale era giunta la “sensibilità dei più”!

Una situazione simile non era comunque imputabile esclusivamente ai seminaristi; è noto, infatti, il disagio che dal punto di vista formativo si è vissuto in tanti ambienti educativi durante gli anni ’60 e ‘70; bisogna inoltre prendere atto di come il mondo musicale italiano non abbia subito recepito certe esigenze della riforma liturgica e abbia spesso prodotto paccottiglia “usa e getta”3.

È facile comprendere, quindi, come in un simile clima don Dante non potesse trovarsi a proprio agio e cominciasse a guardare fuori dal seminario per costituire una formazione di cantori più motivati e impegnati4.

Tuttavia non smise di trasmettere il proprio entusiasmo per la musica a coloro che, nonostante tutto, andavano comunque maturando sensibilità per essa. Così il discorso non fu mai interrotto e portò ad alcune esperienze significative (a quei tempi e in quel clima) che meritano di essere ricordate.

Nel dicembre 1972 un’epidemia influenzale costrinse il seminario a chiudere i battenti qualche giorno prima delle feste natalizie. I pochi seminaristi rimasti indenni restarono (quale premio!) in sede per servire le celebrazioni in cattedrale. Ci trovammo in sette, la mattina di Natale, attorno alla tastiera dell’organo per cantare la Messa del giorno. In quella situazione il programma non poteva essere che quello gregoriano; ma – ad eccezione del Puer – chi conosceva più di tanto il proprio? Ebbene, con don Dante prove ed esecuzione furono la stessa cosa: per tutta la Messa improvvisò preludi sui temi del proprio mentre noi, sul liber usualis, seguivamo la melodia che di lì a poco avremmo cantato. Alla comunione non eravamo sicuri su un passaggio del Viderunt omnes; fatta presente la cosa egli fu pronto: «Scùulta chèla trumba chì!». E, inserita una tromba5 dal timbro suggestivo, riprese il tema permettendoci di ripassare ancora una volta il communio e di cantarlo poi con grande entusiasmo.

Se questo dimostra la capacità di adattarsi anche in una situazione estrema, don Dante operò sempre sfruttando le possibilità della schola del seminario per quel che erano, mutevoli anche di anno in anno, e adattandosi ad esse non solo nella scelta del repertorio ma anche nella composizione di appositi brani. Tutto questo, però, senza abdicare a quella dignità di scrittura, indispensabile nella musica per la liturgia, che nelle sue opere rimase costante ed elevata.

Penso, in proposito, al mottetto Buon Pastore, vero pane che gli fu commissionato per il Corpus Domini del 1975: se in esso l’organico è quello tipico del seminario (contralti, tenori I-II e bassi) la tessitura privilegia le voci degli uomini poiché quelle dei bambini erano ormai poco affidabili, e per quantità e per qualità.

Infatti, nemmeno due anni più tardi la Messa Balossa sarà scritta per coro a 3 voci d’uomo e assemblea. Su di essa è giusto soffermarsi un istante. Gli fu commissionata poco prima del Natale 1976 per essere eseguita nella primavera seguente in occasione della Messa d’argento del rettore Erminio Balossi6. Don Dante accettò di buon grado al punto che, passate le vacanze di Natale, arrivò con le parti di canto già stampate7! Coro e assemblea iniziarono a studiarle con una passione tale da superare lo scetticismo e la diffidenza di un tempo; si provava a cori separati poiché mancava ancora la partitura completa; quando finalmente questa arrivò si programmarono due prove generali; in extremis, alle 11 della notte precedente la festa, si accordarono le ance dell’organo per farle ben figurare nella strombazzata iniziale del Gloria; l’esecuzione, diretta da don Dante e accompagnata all’organo da Franco Berettini, riscosse il meritato successo e, soprattutto, ridiede coraggio a quanti lavoravano nel tener alto il decoro della musica per la liturgia.

Solo qualche mese dopo don Dante pose mano al Magnificat in italiano, a 2 – 3 voci d’uomo e organo, pubblicato molti anni dopo sulla rivista LDC Armonia di voci e rifatto per 4 voci dispari8.

È opportuno inoltre ricordare, anche se la cosa non riguarda più il seminario in senso stretto, due manifestazioni musicali di carattere diocesano curate da don Dante: il concerto nel primo centenario dalla nascita di Lorenzo Perosi (autunno 1972) e il concerto nel decimo anniversario della morte di Federico Caudana (autunno 1973). Vennero coinvolti alcuni cori della diocesi che, dopo aver eseguito brani in proprio, si unirono nel gran finale: La cena del Signore di Perosi e il Sanctus dalla Messa Gloriosa di Caudana. A questi due concerti parteciparono anche gli “uomini” del seminario, cantando assieme ai preti la Messa di requiem di Perosi9 e i mottetti Christus factus est e Tuam coronam di Caudana.

La schola del seminario intervenne anche ai convegni annuali dei cantori della diocesi, promossi da don Franco Robusti10 e guidati da don Dante a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Gli appuntamenti, durati fino al 1984, servirono a ridare coraggio ed entusiasmo ai cori, a confermarli nella validità del loro servizio, a creare un po’ di repertorio comune. Alcune scholae, tra l’altro, commissionarono composizioni adatte alle proprie capacità: e don Dante fu sempre pronto a coniugare il suo estro creativo con le esigenze diverse di ogni schola, elaborando pagine talora semplici, talora complesse ma – come s’è detto – sempre di grande dignità formale.11

La presente pubblicazione dà ampiamente e doverosamente conto di questa sua capacità creativa, in fedeltà al motto del salmo 91 che don Dante ha affidato a tutti in occasione della Messa d’oro: “È bello dar lode al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo”.

Una fedeltà premiata da Dio anche con il traguardo della Messa di diamante!12

Compositore ed esecutore dei “canti della Chiesa”

di Arnaldo Bassini

«L’Arciprete raccontava volentieri di avermi invitato e spinto ad occupare il mio tempo libero delle vacanze con l’armonium e di avere atteso per alcuni anni, senza troppe speranze, i frutti di tutto quel ‘pestare’ che facevo sul vecchio strumento, nei pomeriggi d’estate. Finché, diceva lui, una volta stando in archivio sentì che gli esercizi del Bungart (li conosceva bene anche lui) andavano, senza le solite fermate e inciampi d’altre volte. Venne a vedere. Set te?”. Non capii il complimento; ma fui soddisfatto quando potei accompagnare i canti della Chiesa».

È, questo, uno dei rarissimi cenni autobiografici scritti da don Dante Caifa; nonostante la concisione e il linguaggio quasi dimesso, ne rivela con sorprendente precisione il carattere. Già fin dalle intenzioni: in quella circostanza, infatti, non intendeva parlare di sé, ma dedicare un affettuoso ricordo al “suo” arciprete, don Giovanni Gusberti.

Il senso profondamente vissuto delle radici, della famiglia, delle piccole cose di una quotidianità trascorsa in intelligente semplicità ha accompagnato tutta la vita di don Dante: il legame mai sciolto con Vescovato e con i ricordi di gioventù che il paese gli evocava; l’affetto profondo per la madre, che gli è stata vicina in tanti anni di sacerdozio; la confidente e quotidiana frequentazione con i fratelli, e poi con i nipoti; le cure per la gatta (che con gli anni, naturalmente, cambiava, restando però sempre la “sua” Mina); e poi il rapporto intenso che l’ha legato a tanti dei suoi tantissimi cantori, compresi quelli che, come lui, avevano fatto la scelta del sacerdozio, e per i quali non è stato solo maestro di musica, ma anche confidente saggio, padre e amico dispensatore di conforto e di aiuto.

I cenni biografici di don Dante si possono liquidare in poche righe: classe 1920, seminarista dopo la licenza elementare, prete dal ’43, vicario parrocchiale della Cattedrale dall’anno successivo, dopo una breve esperienza in campagna, a Pieve d’Olmi. E poi gli studi musicali a Parma: il diploma in composizione e il compimento inferiore in organo (ai commissari d’esame che lo congedavano dicendo «ci rivedremo per il compimento medio» pare abbia risposto: «Non ci penso nemmeno; per quel che devo fare io, prete, questo basta»).

In duomo don Dante inizia subito a collaborare anche all’attività musicale, se pur con discrezione, per non turbare gerarchie ed equilibri consolidati. Erano, quelli, gli anni di Federico Caudana, delle grandi esecuzioni organistiche e vocali di impronta tardoromantica. L’esatto contrario, in fatto di gusto, di quanto avrebbe voluto fare il giovane rincalzo arrivato dalla campagna. Ma non era ancora tempo; nell’arco di un decennio, gli anni Cinquanta, il vicario-musicista dovette stare alle direttive, senza discuterle. Salvo che in alcune occasioni lasciate alla sua gestione: come per la prima messa di don Lino Bornati, nel ’50, suo primo impegno ufficiale come musicista, o per l’Accademia con i giovani del coro parrocchiale diretta al “Silvio Pellico” l’8 dicembre dello stesso anno.

Ma la prima uscita pubblica in grande è datata 13 novembre 1960: con mons. Giuseppe Sansoni all’organo, don Caifa diresse il suo primo solenne pontificale in Duomo. Dopo il canto delle ore, la messa iniziò con un Kyrie sobrio, austero, essenziale, quello della Messa L’hora passa di Ludovico da Viadana. Quattro voci a cappella, quelle dei suoi seminaristi di cui già era maestro di canto, riempirono le navate della Cattedrale, annunciando che da quel giorno la musica in duomo sarebbe cambiata. Lo strappo fu ancora più evidente alla Comunione, quando i suoi cantori attaccarono il mottetto Sicut cervus di Palestrina: chi aveva mai ascoltato qualcosa di simile? La polifonia classica, allora, era merce rara, che nessuno conosceva ed eseguiva. Forse molti rimpiansero il vecchio maestro, ma il nuovo non ne fu affatto turbato.

In quell’occasione, per la verità, don Dante ebbe anche un gesto di diplomazia, di quelli che raramente poi, nella sua lunga vita, avrebbe ancora concesso. A mitigare il segno del rinnovamento, infatti, fece intonare un Gloria, non so di chi, tradizionalissimo, con gli “a solo” di Giovanni, tenore-sagrestano, e di Carlo Cernuschi che, da prete, sarebbe stato il solista di tanti concerti da lui diretti. Alla trasformazione del repertorio vocale si accompagnò anche quella delle scelte organistiche: l’organo eclettico-sinfonico, di cui il duomo era stato dotato negli anni Trenta, si dovette piegare con disciplina, sotto le sue mani, ai severi contrappunti di Bach.

Nel 1964 arrivò il riconoscimento ufficiale, la nomina a maestro di cappella, che affiancò all’incarico di organista. Don Caifa lavorava con entusiasmo con i suoi cantori, i seminaristi, allora numerosi. Con loro coltivò, di pari passo, il repertorio polifonico e quello gregoriano. La musica nuova del Duomo, che aveva infastidito alcuni, aveva però anche suscitato vasti interessi. Fu così che un gruppo di giovani gli chiese insistentemente di fare musica anche con loro. Cominciò allora – era il 1968 – l’avventura del Coro ’68, poi Coro Polifonico Cremonese («il mio coro misto del venerdi», annoterà più volte nei suoi quaderni don Dante, alludendo al giorno della prova settimanale), che tanta parte ha avuto nella rinascenza della cultura musicale della città.

Il nuovo gruppo vocale, infatti, fin dai suoi primi anni di vita si è impegnato a portare il repertorio polifonico anche fuori dai confini della celebrazione liturgica, offrendolo all’ascolto “in concerto”; le esecuzioni in Cattedrale, in occasione delle feste natalizie e pasquali, sono state per tanti anni una delle tradizioni più attese, seguite ed amate dal pubblico cremonese. Con il suo Coro Polifonico don Dante ha affrontato e fatto ascoltare i polifonisti classici, Bach, Mozart, e, con una predilezione tutta particolare, le opere sacre del suo predecessore, Marc’Antonio Ingegneri, e di Claudio Monteverdi.

L’attività musicale del Coro Polifonico si è andata nel tempo consolidando e intensificando: a coloro che lo invitavano, soprattutto ai parroci delle piccole chiese di campagna, a tutti don Dante diceva di sì, lieto di portare la musica che tanto amava anche nei centri più piccoli. Con concerti che spesso si dividevano in due momenti distinti: quello ufficiale, con il repertorio sacro, in chiesa, e quello dei canti “profani”, popolari, sul sagrato. Pur senza far mancare le giuste gratificazioni al suo coro, che ha diretto in Nôtre Dame a Parigi, in Santo Stefano a Vienna, in San Pietro a Roma e in altre importanti sedi.

Nel frattempo continuava ad insegnare le discipline musicali ai seminaristi, che però diminuivano ogni anno di numero, a tal punto che con loro non era più possibile garantire il servizio liturgico in Duomo. Del tutto naturale, allora, fu il coinvolgimento del Coro Polifonico che, guidato dal maestro di cappella, avrebbe assicurato il giusto decoro alle liturgie presiedute dal Vescovo. Pur senza che vi sia mai stato un riconoscimento ufficiale da parte dell’autorità ecclesiastica, per tanti anni Coro Polifonico e Cappella della Cattedrale hanno finito per identificarsi.

All’inizio degli anni Novanta, però, all’interno del Coro Polifonico si sono manifestate due diverse anime: da un lato chi legittimamente perseguiva traguardi artistici ambiziosi, che presupponevano un’intensificazione del lavoro di preparazione; dall’altro chi anteponeva ad ogni altra considerazione l’attività liturgica e la volontà di vivere l’esperienza corale anche come occasione di amicizia, di incontro. Caratterialmente più in sintonia con quest’ultima posizione, e preoccupato di poter fornire sempre e comunque un servizio liturgico puntuale, don Dante meditò una scelta che era, ad un tempo, una rinuncia e la realizzazione di un sogno a lungo cullato: avrebbe lasciato libero quel Coro Polifonico che aveva fondato e coltivato con amore, ma nello stesso tempo avrebbe ridato vita alla Cappella Musicale della Cattedrale.

Confortato dall’adesione unanime del Capitolo della Cattedrale, nel 1992, all’età in cui si cominciano a tirare i remi in barca, si lanciava così in una nuova avventura, rifondando quell’organismo che, nei secoli, aveva fatto la storia musicale della città. Il Duomo tornava ad avere il suo gruppo vocale stabile, istituzionalmente chiamato ad accompagnare le celebrazioni liturgiche presiedute dal Vescovo; la Cappella, portata a gran fama da Marc’Antonio Ingegneri nella seconda metà del XVI secolo, riaveva una sua continuità alle soglie del Duemila.

Nel 1998, nel rispetto delle leggi canoniche, don Caifa ha lasciato l’incarico di maestro di cappella, ma non ha certo smesso di fare il musicista. Ha continuato ad insegnare ai giovani, dedicando entusiasmi e attenzioni all’Associazione “Marc’Antonio Ingegneri”, da lui presieduta, che cura la formazione musicale e liturgica dei giovani organisti.

Compositore, direttore, organista, didatta; l’attività artistica di don Caifa però non è mai stata disgiunta da quella “principale” di prete; da questa, anzi, è stata in qualche modo condizionata, così come da quei tratti del carattere così particolari che l’hanno reso agli occhi di tanti un personaggio “originale”: l’insofferenza per la mediocrità e per la vanità, ma anche una disponibilità alla carità senza confini. Al direttore di un grande-pessimo coro, che, invitato ad animare una celebrazione in Duomo, gli chiedeva un giudizio sull’esecuzione, rispose «Siete in tanti!». Ma per costituire l’orchestra dei suoi concerti per anni ha attinto strumentisti tra i giovani liutai, quei primi stranieri che negli anni Settanta approdavano alla Scuola di Cremona, vestiti e conciati in qualche modo e senza un soldo in tasca. Facendoli suonare, offriva loro un aiuto economico in maniera elegante: non era una “carità”, ma il compenso ad una prestazione professionale. E per fare un regalo ad un nipote non musicista, ha acquistato un violino da un giovane liutaio con problemi economici.

Del resto sono proprio questi piccoli episodi, di cui è disseminata la sua lunga vita, a dare la dimensione più vera di un personaggio che in qualche modo ha segnato l’evoluzione della cultura musicale della città nella seconda metà del secolo appena concluso. Fiero di essere compositore ed esecutore dei “canti della chiesa”, fiero di aver diretto il coro che ha accolto in Cattedrale il Papa nel 1992, poco o nulla lusingato dal riconoscimento di “Cremonese dell’anno” che “Mondo Padano” gli aveva assegnato nell’82, alla prima edizione del prestigioso premio.

Questo suo carattere e la capacità di infondere una vitalità sorprendente in esecuzioni musicali anche modeste, rendendole comunque interessanti, sono le doti che i tanti giovani che hanno lavorato con lui, facendo poi della musica una scelta di vita, hanno imparato ad amare ed apprezzare. Voglio solo citare Antonio De Lorenzi, primo violino di tanti concerti in Cattedrale; Antonio Greco, che, dopo essere stato suo corista, l’ha eletto come modello quando ha scelto di fare il direttore di coro. E, infine, Marco Ruggeri, appassionato curatore di questa raccolta, cui ha lavorato come atto di devozione verso il Maestro.

Dante Caifa compositore: cenni introduttivi

di Marco Ruggeri

Nella redazione di questa antologia si è cercato di ricostituire, in una dimensione il più possibile completa, l’opera compositiva di Dante Caifa, maestro di cappella della cattedrale di Cremona dal 1964 al 1998 ed autentico protagonista della vita musicale cremonese nella seconda metà del XX secolo. Il materiale qui raccolto rappresenta la totalità di ciò che, al momento, è risultato disponibile, ben sapendo però che altre composizioni, per lo più scritte ed eseguite in anni ora lontani, sono sfuggite alle nostre ricerche.13 L’abitudine del Maestro di scrivere brani o mottetti per numerosi cori diocesani, e quindi di consegnare disinteressatamente ad essi le proprie partiture senza trattenerne almeno una copia, ha causato una sorta di diaspora degli originali, ricomponibile solo attraverso una sistematica ricerca nei vari archivi parrocchiali.14 Pertanto, questa pubblicazione vuole essere un primo tentativo, seppur con esiti già piuttosto corposi, di ricostituire l’importante opera del Nostro, nella speranza che essa porti a successivi rinvenimenti.

Come più volte ricordato dallo stesso don Dante, l’impulso iniziale al suo apprendimento musicale e, soprattutto, una lezione di gusto e misura che sarebbe rimasta indelebile nel corso di tutta una vita, gli giunsero dal parroco del paese natale, Vescovato, don Giovanni Gusberti, ancor oggi là ricordato per la sua raffinata sensibilità letteraria e le sue doti di buon musicista.

Per la preparazione agli esami di Conservatorio, Caifa prese lezioni da Gian Luigi Tonelli, solido musicista bresciano (1894-1963), già allievo di Ildebrando Pizzetti e Achille Schinelli, che per lungo tempo, dal 1935 alla morte, insegnò all’Istituto Magistrale di Cremona. Si diplomò quindi in Canto corale al Liceo Musicale di Piacenza (1949) e in Composizione al Conservatorio di Parma (1951).

Terminati gli studi scolastici, l’attività musicale di Caifa si è svolta essenzialmente lungo due direttrici fondamentali: da una parte il servizio alle necessità della diocesi cremonese nel campo della musica sacra, servizio via via sempre più impegnativo e consistente, consacrato ufficialmente dalla nomina a maestro di cappella della cattedrale e svolto nella duplice veste di direttore-compositore; dall’altro, un’indomabile curiosità, un’attrazione viscerale e costante verso i grandi maestri del passato, in particolar modo Bach e Monteverdi, senza tralasciare i polifonisti Palestrina e il “nostro” Marc’Antonio Ingegneri: Caifa fu tra i primi, o comunque tra i pochi, a Cremona, a conoscere, studiare ed assimilare l’insegnamento di quei grandi, in un continuo processo di apprendimento poi testimoniato in varie composizioni15 e, specialmente, nelle esecuzioni del Coro Polifonico.16 A questi va aggiunto, in una dimensione non solo artistica ma dai risvolti quasi affettivi, il grande bussetano Giuseppe Verdi che, con il celebre motto “torniamo all’antico e sarà un progresso”, ha anche delineato una sorta di programma d’azione – secondo una comprensione del “fare” presente non come rottura, ma come continuità diretta dal passato – che a Caifa è sempre risultato particolarmente congeniale.17

Vista nel suo complesso, la produzione musicale di Caifa è imperniata prevalentemente attorno al genere corale, pur con varietà di assortimenti vocali, talvolta anche solistici, con o senza organo.18 Fin dagli esordi compositivi, qui rappresentati dall’Invocazione a Maria del 1942, semplice ma elegante dialogo tra pueri e coro maschile, l’opera del Nostro è sempre stata segnata da una costante solidità compositiva, un uso appropriato, disinvolto e talora geniale dell’armonia, un’innata attitudine al dialogo contrappuntistico, una linearità elegante e, al tempo stesso, incisiva della frase musicale.

Nonostante la vicina e forte presenza di Caudana, la lezione del maestro piemontese è fin dagli inizi estranea al sentire musicale di Caifa, innanzitutto per una diversa percezione del testo sacro e, conseguentemente, nel differente commento musicale alla Parola. Il melodiare esuberante, ottimistico, a volte un po’ fine a se stesso di Caudana non è mai stato congeniale a Caifa, più incline ad utilizzare i mezzi tradizionali della composizione non per ornare superficialmente, ma per commentare il Testo dal suo interno. Un obbligo morale di “servire” la Parola, senza scavalcarla e cercando invece di penetrarla nei suoi significati più autentici, caratterizza decisamente l’opera del Nostro fin nelle sue prime manifestazioni.

Le due messe giovanili, la Missa paschalis (1947)19 e la Missa S. Michaelis Arcangeli (1948)20 ne costituiscono un esempio lampante anche se, di primo acchito, sembrerebbe più evidente il riferimento a noti modelli. Nell’impianto generale, infatti, la Missa paschalis si avvicina alle celebri messe perosiane, in particolare nella tradizionale costruzione interna dosata sull’alternanza tra sezioni accordali, passi solistici, un elaborato accompagnamento dell’organo, fugati e temi circolanti;21 l’altra messa, invece, si inserisce nel filone della cosiddetta messa “popolare”, cioè ad una voce (assemblea) e organo, già notoriamente rappresentato dalla messa Laus tibi Christe (1940) di Caudana.

Ma l’apparente legame con i due illustri precedenti, specialmente per il secondo, è più formale che reale, essendo la sostanza musicale delle due opere già ricca di contenuti nuovi ed originali. Nella Missa paschalis, ad esempio, il Christe inizia con una prevedibile scrittura melodico-solistica che viene però presto abbandonata a favore di un progressivo infittirsi del contrappunto, a prima vista un po’ disarticolato, nel quale tuttavia emerge e prende sempre più consistenza un inciso melodico dapprima affidato ai bassi e poi, nel successivo Kyrie, insistentemente ripetuto dal pedale dell’organo: evidente è l’intenzione, ben riuscita, di sottolineare l’atteggiamento supplicante del cristiano nella richiesta di un perdono che pare concesso solo con il sopraggiungere dell’accordo finale del brano.

In altri momenti Caifa dà fondo in modo sorprendente alle risorse del cromatismo e dell’enarmonia, ottenendo una generale instabilità tonale che coerentemente si abbina a significati testuali particolarmente intensi. Nel Qui propter nos homines, la discesa di Cristo in terra è resa con un travagliato cromatismo: non una venuta trionfale, ma l’inizio di un cammino che porta alla croce; i tradizionali toni pastorali o intimistici dell’Et incarnatus sono solo vagamente accennati dalla tonalità di Fa subito accostata, con rapida modulazione, alla triade lontana di Si maggiore. La sezione termina con un’armonia dissonante, non risolta, ad indicare, in termini non solo musicali, l’apertura e la compiutezza di senso dell’Incarnazione nel successivo Crucifixus. L’innalzamento del Salvatore al legno della croce è qui simbolicamente descritto con sofferti salti melodici ascendenti; ogni ornamento è tuttavia cancellato nella seguente duplice invocazione “crucifixus” declamata dal coro con un ritmo puntato tanto scarno quanto realisticamente e drammaticamente efficace.

Meritano un commento anche il Qui tollis del Gloria, nel quale la relativa staticità melodica delle parti vocali (in particolare del contralto) contrasta con il cromatismo senza sosta dell’accompagnamento organistico; infine, il dona nobis pacem dell’Agnus, per il suggestivo colore armonico: sul piano tematico è facile notare il ritorno del motivo iniziale del Kyrie e poi dell’incipit organistico del Gloria, ma sono l’entrata acutissima del tenore su La bemolle (b. 465) e le due armonie dissonanti consecutive (settima di 2ª e poi di 4ª specie, bb. 465-468) a creare un vero acme di autentico pathos che, letto nel contesto storico dell’immediato periodo postbellico, assume i toni di un’invocazione accorata e intimamente vissuta.

La destinazione popolare o, diremmo oggi, “assembleare”, della Missa S. Michaelis Arcangeli porta inevitabilmente ad un linguaggio più semplice e abbordabile. Se il modello formale e pastorale, come detto sopra, è quello della missa Laus tibi Christe di Caudana, il contenuto muove in direzione opposta. Basti solo osservare il tema del Kyrie, estraneo a qualsiasi tonalità definita e invece costruito su quattro tetracordi, i due ascendenti mi-la e fa-sib, e i due discendenti do-sol e la-mi. L’intervallo di quarta compare ancora nel tema iniziale del Credo e in varie riprese interne, a dimostrare una poca attrazione verso le certezze della tonalità e, piuttosto, una naturale predisposizione, comprovata anche da molte opere successive, verso la cantabilità modale del gregoriano.

L’esperienza del canto gregoriano è alla base della sensibilità musicale ed artistica di Caifa. Molte composizioni, specialmente le messe, contengono rimandi più o meno consistenti al canto ecclesiastico per eccellenza, secondo almeno quattro differenti procedure: l’alternatim gregoriano-polifonia, nel quale la melodia gregoriana serve come spunto tematico per le brevi sezioni polifoniche;22 la semplice citazione, in forma isolata23 o come pretesto per una elaborazione imitativa;24 la parafrasi;25 il gregoriano “organizzato”.26

La ricerca cromatica che aveva caratterizzato diversi passi della Missa paschalis trova una sua continuazione in tre composizioni successive: i mottetti Memor sit Dominus (1957), Inimicitias ponam (1965) e il Trittico (1971), tutti con la presenza di un tenore solista. La disgregazione dell’impianto tonale tradizionale è ottenuta con l’uso costante dell’enarmonia e mediante la creazione di nessi armonici di breve durata, in continua evoluzione: espediente, questo, che produce suggestivi effetti uditivi ma, soprattutto, risulta particolarmente consono all’idea poetica di valorizzare e commentare la singola parola del testo sacro. Così, ad esempio, in Memor sit Dominus, alle parole del tenore “holocaustum tuum habeat gratum”, la voluta insistenza sull’ambiguità re#-re-re# tra tenore e organo in corrispondenza di “holocaustum” sfocia in una consolante triade maggiore sopra “gratum”. Esiti particolarmente arditi vengono raggiunti nella parte iniziale del mottetto Inimicitias ponam con un tortuoso commento organistico che si placa soltanto su “et mulierem”, attraverso una semplice settima di dominante su Sol, prima, e poi una triade maggiore perfetta di Do.

L’uso intensamente espressivo dell’armonia, libero da vincoli di impianto o d’organico, trova una sua convincente maturazione nel Trittico per tenore, oboe ed organo. I testi biblici impiegati (Giobbe, Isaia e il salmo 26) offrono notevoli stimoli poetici che Caifa sa cogliere con sorprendente attenzione e poi tradurre attraverso un ampio ventaglio di soluzioni armoniche e ritmiche. Risultato di questa ricerca sono l’ottenimento di un declamato vocale particolarmente incisivo e, più in generale, una diretta corrispondenza tra la situazione emotiva che emerge dai testi e le sensazioni psicologiche generate dalla musica: l’ansia della disperazione, attraverso un continuum di terzine nella parte dell’organo (quadro I); l’ostinazione del lamento, mediante la ripetizione di un breve inciso melodico nella battuta “larga” di 5/4 (quadro II); infine, la speranza nutrita dalla preghiera, attraverso un allentamento delle turbolenze ritmiche e un progressivo rasserenarsi delle armonie (quadro III). Meritano una sottolineatura la violenza accusatoria di “Tu distruggi la speranza dell’uomo” e, su un piano decisamente opposto, l’ardente invocazione del Messia “Mandi rugiada il cielo”: qui, dopo una lunga sezione ancorata alla tonalità di Fa minore, l’improvviso apparire della relativa La bemolle maggiore giunge come un inatteso squarcio di sereno che si apre alla piena luminosità nella poetica espressione “germogli il Salvatore”.

La tormentata vicenda di Giobbe, che rappresenta le inquietudini e le angoscie dell’uomo di ogni tempo, non può costituire, però, per il compositore-sacerdote, un punto d’arrivo: l’enfasi data alla sezione messianica, attraverso il recupero della melodia pura e dell’armonia consonante, segna la partecipata adesione alla speranza cristiana della salvezza.

Il tema della Speranza è particolarmente caro a don Dante e viene spontaneamente evidenziato anche in altre composizioni. Le espressioni “Domine spes mea” nel citato mottetto Memor sit Dominus e “Christus spes mea” nello splendido Victimæ paschali, per soprano, coro e organo (1994) danno luogo ad una insolita dilatazione della forma mediante numerose ripetizioni testuali. Basti pensare che, nel mottetto, l’invocazione finale “Domine spes mea a juventute mea” occupa, da sola, circa due terzi dell’intera composizione. Nella sequenza, invece, dopo che soprano e coro hanno già cantato “Surrexit Christus spes mea, præcedet vos in Galilea”, il soprano (Maddalena) torna a ripetere “spes mea” più volte, con una liberissima e appassionata digressione. A questa evidente rarefazione formale corrisponde, come già nel Trittico, anche un significativo incremento dell’intensità melodica che conduce, nel Victimæ paschali, addirittura ad un melisma puro sulla vocale “a” (citando il tema medievale O filii et filiae) a conclusione della sezione solistica della Maddalena.

Interessante è la dimensione teatrale nella parte centrale della sequenza: mentre il testo prevede un solo intervento dei discepoli, con la richiesta di spiegazioni alla Maddalena (“Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?”), Caifa predispone altri inserti, che interrompono continuamente la risposta della donna, replicandone concitatamente ogni parola o espressione. Si viene a creare così un dialogo serrato di notevole effetto drammatico nel quale l’intervento della Maddalena, impostato su una linea melodica alta e sicura, risulta contrappuntato nelle tessiture gravi dai dubbiosi interventi dei discepoli, ancora increduli e sbigottiti.

Freschezza di rappresentazione drammatica e descrittivismo sonoro trovano la loro più alta manifestazione nel mirabile duetto Una voce, il mio diletto per soprano, tenore e pianoforte (1999) su testi del Cantico dei Cantici. I mezzi musicali adottati sono alquanto scarni: le voci si muovono in uno stile prevalentemente recitativo, con rari accenti lirici; dal canto suo, il supporto pianistico si limita all’indispensabile, agendo più per allusioni che con interventi espliciti. Ne esce una raffinata rappresentazione, un puro idillio tratteggiato con toni bucolici, citazioni gregoriane, suggestivi accostamenti armonici, in uno scorrere fluidissimo del dialogo amoroso. Un lirismo delicato e candido che già era comparso molti anni prima, a commento di testi mariani, nella giovanile Invocazione a Maria per pueri e coro maschile (1942) e nella Preghiera alla Vergine per canto e pianoforte (1965) sul canto XXXIII del Paradiso dantesco.

A partire dalla metà degli anni Sessanta, la produzione musicale di Caifa è prevalentemente in lingua italiana. L’uso delle lingue volgari sancito dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II ha portato alla necessità pratica di riscrivere gran parte del repertorio abituale. Anche Caifa si è adeguato alle nuove direttive, prestando una particolare attenzione alle risorse ritmiche insite nella nostra lingua. Il tono severo e la maggiore sintesi lessicale del latino conducevano naturalmente ad uno stile di canto misurato; la più spiccata prolissità delle versioni italiane offre a Caifa la possibilità di nuove aggregazioni ritmiche, apparentemente più varie e irregolari, ma in realtà utilizzate per ricondurre l’abbondanza sillabica della lingua italiana alla periodicità costante delle scansioni musicali. Un bell’esempio, in proposito, è offerto dalla cosiddetta Messa “Balossi”, per assemblea, coro e organo (1977) ove l’impiego della terzina ricorre frequente proprio con lo scopo pratico di normalizzare musicalmente il ritmo irregolare della lingua italiana. Talvolta, però, il ritmo terzinato viene adottato per creare particolari effetti di concitazione, con la finalità di evidenziare parole-chiave del testo cantato: si veda, in proposito, nel Gloria, il passo “tu solo l’Altissimo” nel quale le voci, entrando una dopo l’altra, sembrano rincorrersi disordinatamente con un ritmo sempre più accelerato, fino a raggiungersi insieme sulla parola “Cristo”.

Stessa disinvoltura ritmica, legata ad un uso sempre pertinente delle armonie, si trova in uno dei mottetti più conosciuti, Al Signore ch’entrava per coro a 3 voci miste e organo (1967), di modesto livello esecutivo ma fluido e puntuale nell’abbinamento delle idee musicali alle situazioni evocate dal testo: l’immagine della folla, resa da un accenno di fugato; la resurrezione di Cristo, fissata con un’ascesa melodica modulante ed incalzante; l’agitazione delle palme, disegnata da una linea melodica frastagliata e saltellante; l’osanna finale, contrassegnato da entrate sfasate delle voci su una statica armonia di Fa.

Il mottetto in italiano ha rappresentato l’unico genere musicale veramente nuovo dopo la riforma liturgica, poiché aperto a maggiori libertà compositive ed esecutive. Il testo della messa, infatti, essendo per sua natura principalmente destinato al canto comunitario,27 va musicato tenendo conto di estensioni e modalità piuttosto contenute; viceversa, i testi del proprium trovano la loro più convincente realizzazione musicale nel genere del mottetto per schola: opportunità che Caifa ha saputo cogliere in modo rilevante, utilizzando al meglio le varie tecniche della composizione corale nel commento del testo sacro. Si tratta di brani di breve durata, per lo più adatti come canto d’ingresso, mirabili per la sintesi e l’accostamento rapido ed efficace delle risorse compositive. Si vedano, ad esempio, i mottetti Buon Pastore (1975), dalla dolce linearità melodica, Cantate al Signore un canto nuovo (1986), Il Salvatore nostro Gesù Cristo (1981) con l’ampia digressione finale su “Alleluia”, Il Signore gli ha dischiuso la bocca (1977), di fattura contrappuntistica nel dichiarato omaggio a Bach e Haendel, I sacerdoti del Signore (1975) e Lodate il Signore (1980).

Una parte cospicua di questo volume è dedicata agli adattamenti e alle armonizzazioni. E’ opportuno precisare che l’assimilazione del modello e la conseguente redazione finale presentano gradazioni diverse. Si va dalle semplici e deliziose armonizzazioni di canti popolari tratte dalla raccolta diocesana Canti sacri del 1941 alle più complesse versioni strumentali del Tantum ergo di Wade, strumentato per la banda di Bozzolo nel 1985, e dell’Adeste fideles in versione orchestrale per il concerto natalizio del 1979. D’effetto risulta l’adattamento per assemblea, coro a 4 voci e organo del popolare inno alla Madonna del Carmelo In terra d’esilio (1982) di Antonio Concesa.

In tre casi, invece, l’adesione al modello è pressochè totale. Si tratta della nota Messa “S. Giovanni Crisostomo”, presa dalla Divina Liturgia di S. Giovanni Crisostomo e traslitterata dall’originaria destinazione per coro maschile al più consueto organico a voci miste, in occasione della settimana per l’unità dei cristiani nel 1976; il brano Son qui con te, trasposizione dell’aria di J. S. Bach Bist du bei mir per soprano e basso continuo (dal Klavierbüchlein für Anna Magdalena) alla tessitura interamente maschile del coro “Paulli”; infine, un singolare adattamento per coro a 4 voci miste del Trio della Sinfonia n. 40 di Mozart, con il testo Danzate con me.28

Armonizzazioni a 4 voci di spirituals, canti religiosi natalizi e canti profani della tradizione popolare cremonese completano il quadro, rivelando sempre proprietà di stile, singolari commenti contrappuntistici e la consueta padronanza dell’armonia. Attraverso di essi emerge anche buona parte del repertorio sacro-profano del coro diretto da Caifa in numerose occasioni concertistiche.

Cultore del dialetto cremonese, ivi comprese le vivaci varianti vescovatine, Caifa si è pure cimentato nella composizione di significativi testi poetici dialettali. I due presentati denotano finezza e acume descrittivo: riguardano la Passione di Cristo, rievocata con umanissima partecipazione, e la figura della madre, colta nello struggente ricordo di un fatterello domestico.

Pressochè tutte le composizioni di Caifa sono state scritte dietro lo stimolo di una finalità pratica: le esigenze liturgiche del coro del Seminario o del coro misto per il servizio in duomo, le richieste di amici sacerdoti, musicisti e direttori di coro per le occasioni più disparate. A ciascuno il Maestro ha risposto offrendo momenti di vera bellezza e di sicura dottrina musicale, sempre entro i limiti dei vari livelli esecutivi. Questo legame con la realtà diocesana non viene dimenticato: attraverso la lettura delle dediche o delle prime esecuzioni, si vengono a delineare persone, situazioni e momenti tra i più significativi della vita musicale sacra cremonese dell’ultimo mezzo secolo.

1 Il repertorio era piuttosto vario: nel 1967 si eseguì una Missa in illo tempore, allora attribuita da Siro Cisilino a Claudio Monteverdi (quell’anno era il IV centenario della sua nascita); nel 1968 la Messa S. Carlo dell’Antonelli; di Perosi ricordo le Messe cerviana ed Eucharistica, il Magnificat in lab; Messe, propri di Messe, mottetti dello stesso don Dante, sia in latino che in italiano… Per alcuni anni a Pasqua l’offertorio Terra tremuit fu cantato sulla musica di grandi autori, adattando via via le parole al “pedale” della celebre toccata per organo dalla V Sinfonia di Widor, o al coro finale del Messia di Haendel, o all’alba della risurrezione di Cristo di Perosi; la cosa risaliva a prima del mio ingresso in seminario, ma le parti di canto conservate in archivio testimoniavano bene la consuetudine e la confidenza di don Dante con quegli autori.
2 Giovanna Gregori Maris, La Cappella Musicale della Cattedrale di Cremona tra XIX e XXI secolo, in Adorate Deum (1998-2002), a cura della Cappella Musicale della Cattedrale di Cremona, Cremona 2003, pag. 39.
3 Non va taciuto lo stato delle liturgie in cattedrale, quando il rubricismo esasperato (ed esasperante) che le caratterizzava rendeva tutt’altro che dignitosa la celebrazione dei santi misteri, accresceva il disagio tra i seminaristi e, anche ai più sensibili, faceva letteralmente “passar la voglia” di impegnarsi a qualificarla dal punto di vista musicale.
4 Nel 1968 diede vita a quello che si chiamò dapprima Coro ’68 e in seguito Coro Polifonico Cremonese.
5 Alcuni anni fa, ricordando l’episodio, don Dante mi disse che si trattava della tromba 16’ di Biroldi, presente nell’organo dal 1826 e sempre mantenuta nei rifacimenti successivi.
6 Da qui la denominazione di Messa Balossa attribuita confidenzialmente dai seminaristi ma, in seguito, ratificata dall’interessato.
7 Prima di esse arrivò la puzza di ammoniaca caratteristica dell’eliografia con la quale venivano duplicate.
8 Il Magnificat fu cantato ai vespri di S. Omobono, con un’esecuzione iniziata sulla gradinata del vecchio altar maggiore, continuata in presbiterio in cornu epistolae, conclusa in coro: tutto questo movimento – intendiamoci – non era previsto in partitura ma fu dovuto all’ostinazione del cerimoniere vescovile di far incensare il vecchio altare di marmo anziché quello di legno sul quale ormai si celebrava abitualmente l’Eucarestia. I seminaristi erano seccati per l’assurdità della cosa; don Dante non fece una piega avvezzo da tempo, ormai, alle stranezze della liturgia in cattedrale.
9 Il vescovo Bolognini presenziò al concerto che fu (chi l’avrebbe detto?) anche la “prova generale” del suo funerale. Morì infatti due mesi dopo. Al suo funerale seminaristi e preti eseguirono la Messa di requiem di Perosi senza bisogno di ripasso alcuno.
10 Al grido di battaglia: Mille cantori in cattedrale!
11 Tra le tante composizioni su commissione va ricordato il mottetto Al Signore ch’entrava nella santa città, richiesto nel 1967 da don Ettore Fontana, compagno d’Ordinazione di don Dante e allora parroco di Castelverde, per il coro di quella parrocchia: semplicità e brio ne fanno ancora un pezzo forte per tante scholae della diocesi, nonostante lo si canti solo una volta all’anno!
12 Il periodo al quale la maggior parte di queste note si riferisce, va dal 1966 al 1979, cioè ai miei anni di seminario; un periodo molto ristretto rispetto all’attività svolta da don Dante come maestro di cappella in cattedrale, ma è il periodo nel quale ho avuto con lui i maggiori contatti.
13 Consultando l’elenco cronologico delle composizioni riportato più avanti, appare evidente la situazione improbabile del decennio 1950-60, ove è contemplata una sola opera. E’ vero che altri brani, specialmente in latino e privi di data, potrebbero risalire a quegli anni pre-conciliari (il Benedictus, i mottetti Iam non dicam e Sicut in holocausto e la canzone Gesù e i fanciulli), ma ne risulterebbe un quadro ancora piuttosto scarno. Tra le composizioni al momento non reperite e di cui, però, siamo a conoscenza, grazie al piacevole ricordo di vari suoi esecutori, vi è l’oratorio Saulus, ossia una storia di san Paolo per solisti, coro e pianoforte composta utilizzando temi e cori operistici di vari autori (Verdi, Wagner, Ponchielli, ecc.). L’esecuzione avvenne in Seminario verso la metà degli anni ’60.
14 Così è stato per alcuni dei brani qui proposti, come il Gloria in Do, scritto il coro di Pescarolo ed ivi conservato; oppure i vari brani composti per la corale di S. Ilario in Cremona, o il mottetto Al Signore ch’entrava, scritto nel 1967, dedicato alla schola cantorum di Castelverde e là custodito nella versione originale a due strofe senza versetti. Il recupero di questi brani è stato possibile grazie all’interessamento di mons. Giuseppe Perotti, già parroco di Pescarolo, e dei direttori delle corali di S. Ilario e Castelverde, Pietro Nespoli e Giorgio Scolari.
15 Già il Crucifixus della Missa S. Michaelis Arcangeli (1948) contiene un esplicito riferimento all’inizio del primo coro della Passione secondo S. Matteo di Bach. Assonanze bachiane si trovano anche nel Magnificat in latino (1997), mentre cenni di vocalità monteverdiana si riconoscono nel solo centrale del soprano (Maddalena) nella sequenza Victimae paschali (1994).
16 Non solo mottetti o messe dei vari Palestrina, Ingegneri, Pergolesi, Da Victoria, Monteverdi ecc. ma anche, come ricordato da Gino Assensi nella sua prefazione, veri e propri “travestimenti spirituali”, ossia adattamenti di testi sacri latini a composizioni di varia provenienza, vocale o strumentale, legittimandone così l’esecuzione, e la pertinenza liturgica, anche nei severi pontificali.
17 A testimoniare la dimestichezza di Caifa con il melodramma italiano non v’è solo Verdi, ma anche Puccini e Ponchielli. A questo proposito va ricordato il concerto tenuto dal Coro ’68 di Cremona (predecessore del Coro Polifonico), con la partecipazione di alcuni solisti, diretti da Caifa a Paderno il 3 luglio 1976 in occasione delle celebrazioni per il centenario della Gioconda: vennero eseguiti brani da varie opere ponchielliane, con il supporto pianistico di Fabrizio Garilli. Presso il Museo Ponchielliano di Paderno è tuttora conservata la registrazione sonora.
18 Altri organici sono piuttosto rari, ma significativi. Si vedano le elaborazioni del Tantum ergo di S. Webbe per la banda di Bozzolo e la versione orchestrale del celebre Adeste fideles. Non sono stati inseriti, per incompletezza delle rispettive parti strumentali, un Recessit Pastor noster per banda, datato 22 aprile 1946 e scritto per la processione del Venerdì Santo; e la deliziosa canzone Gesù e i fanciulli per coro a 2 voci, arpa, violini I-II, violoncello e pianoforte, tuttavia di incerta attribuzione.
19 Il Sanctus non è stato pubblicato perché incompleto. E’ scritto in un fascicolo a parte, non appartiene cioè al manoscritto contenente le altre parti della messa. Si discosta anche stilisticamente dal resto della messa in quanto composto con una evidente imitazione dello stile contrappuntistico bachiano.
20 Questa messa si presenta in due versioni autografe: la prima, datata gennaio 1948, e una seconda, non datata, ma chiaramente successiva, che differisce dalla precedente soprattutto in alcuni passi del Credo, resi più scorrevoli e sintetici. A questa si è fatto riferimento nell’edizione. Esiste poi un’altra versione originale del Gloria, senza data ma pure successiva, redatta per coro a due voci e qui trascritta in Appendice.
21 La parte dell’organo all’inizio del Kyrie, ad esempio, ritorna, leggermente modificata, in vari momenti del Gloria; oppure, il tema solistico del dona nobis pacem è lo stesso enunciato dalle voci nel primo Kyrie.
22 Si vedano la Missa De Angelis, il Gloria della Messa corale e il Credo isolato.
23 Gli esempi sono molteplici. Nella Messa S. Omobono, ad esempio, l’incipit del Santo deriva dalla messa IX, mentre la sezione del Gloria Signore Dio, re del cielo riproduce il tema dell’antifona mariana di IV modo Speciosa facta es; questa e la precedente Iam hiems transiit si trovano citate invece nel duetto Una voce, il mio diletto dal Cantico dei Cantici (cortese segnalazione di Massimo Lattanzi).
24 Come nel Kyrie della Missa brevis, basato sul tema della messa XVIII. Stesso trattamento si trova nei mottetti Iam non dicam, tratto dal relativo responsorio in Ordinatione Presbyteri, e Sicut in holocausto, dall’Offertorio della VII domenica dopo Pentecoste.
25 E’ il caso del Gloria e Credo della Messa I, integralmente impostati sui rispettivi temi della messa VIII; oppure, in forma meno estesa, le parafrasi della stessa messa gregoriana nel Santo e nell’Agnello di Dio della Messa II, il Santo della Messa IV (sull’inno Crudelis Herodes), e così via. L’avvento della riforma liturgica, ufficializzando l’uso della lingua italiana, di fatto metteva in disparte la pratica liturgica del canto gregoriano: questi tentativi di “italianizzare” le melodie gregoriane se, da un lato, possono far storcere il naso a qualche purista, tuttavia mostrano l’incapacità di Caifa di rinunciare a un repertorio secolare scelto come modello della propria cifra artistica e quindi l’istintiva volontà di mantenerne vivi i connotati essenziali, anche contro le più accanite ed estreme mode riformatrici.
26 E’ la tecnica di citare letteralmente tutta la frase gregoriana nella voce acuta e di creare, sotto di essa, un tessuto polifonico parallelo, secondo un procedimento che ricorda una delle più antiche manifestazioni della polifonia occidentale, l’organum medievale: in esso ad ogni nota del tema gregoriano si contrapponevano, punctus contra punctum, parti vocali autonome (tecnica detta organisatio). Si vedano, in proposito, il Sanctus e l’Agnus della Missa brevis, basate sui rispettivi temi della messa X.
27 L’istruzione Musicam sacram (1967) prevede come primo e secondo grado della partecipazione diretta assembleare il canto dei testi dell’ordinarium missae e solo come terza possibilità, dopo il rispetto delle prime due, quella di far cantare il popolo nei momenti del proprium essendo questi ultimi preferibilmente da delegarsi alla schola o al suono dell’organo solo.uy
28 Un altro divertente adattamento mozartiano, dal singolare titolo Tua ta tua, fu realizzato da Caifa sulla musica della celeberrima Serenata in Sol K.525, inserendovi nientemeno che il testo della scena finale del II atto dell’Aida.

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